Cultura Marinara

Tutto quello che vorresti sapere ma non hai mai osato chiedere

 

Articoli di sapore marinaro che hanno suscitato la nostra curiosità e che desideriamo condividere con i nostri visitatori, che a loro volta sono incoraggiati ad inviarci perché possiamo pubblicarli in questa rubrica.


 

Ricorre puntualmente, quando si vuole rimproverare chi crea confusione allo scopo di nascondere inefficienze, la citazione di «Facite ammuina», che tratta un ipotetico articolo del Regolamento della “Real Marina Borbonica”.

 

facite ammuina

Tale citazione fa riferimento ad un articolo, non vero e nemmeno verosimile, anche se a suo tempo fu ampiamente diffuso dai detrattori del Regno; si consideri che la Marina borbonica, che si chiamava intanto ufficialmente “Armata di mare delle due Sicilie” e come tale compariva in tutti i documenti, vantava la seconda flotta commerciale (al 1860 erano registrati 9848 bastimenti per 259.917 tonnellate) e la terza flotta militare del mondo di allora.

Per questo motivo i suoi codici, come del resto tutti i codici del regno, erano redatti in italiano e non in dialetto napoletano, e costituivano notevole ed autorevole riferimento sulle leggi del mare. Michele De Jorio, giurista napoletano fu l’autore del primo codice di diritto marittimo, il “Codice Ferdinandeo” a cui si rifecero gli altri, successivi. Citiamo dal testo di Lamberto Radogna “Storia della marina militare delle due Sicilie (1734 – 1860)” Mursia 1978” che essa era senza dubbio la più importante marina da guerra esistente in Italia prima dell’unificazione; frutto di un’antica tradizione, si distinse infatti per organizzazione, tecnica ed amministrativa, per qualità e quantità di naviglio.

Prova ne è che all’indomani dell’unità, il Conte di Cavour estendeva le sue ordinanze, i regolamenti, i segnali, e persino le uniformi alla marina da guerra italiana. …essa rappresentava una forza singolarmente dinamica e moderna, adeguata via via ai tempi ed alle necessità, fino all’apogeo dovuto all’arricchimento apportato dalle navi a vapore (prime a comparire nel Mediterraneo) che ne fecero una delle più importanti flotte. Essa poteva vantare altri primati, fra i quali quello che conseguì con il vapore «Sicilia» al comando del Capitano Ferdinando Cafiero, che approdò a New York dopo 26 giorni di viaggio, realizzando così il primo collegamento effettuato con una nave a vapore di uno stato “italiano” fra questo e il Nord America.

Intorno a Napoli ferveva la più grande industria navale italiana, e non a caso il primo vapore europeo a solcare il mare, il Ferdinando I, fu qui costruito. La cantieristica napoletana, oltre a costruire tutto il naviglio interno, eseguiva lavori per mezza Europa Tra questi arsenali uno in particolare era da considerarsi tra i più attrezzati ed era quello di Castellammare di Stabia che, per ovvie questioni logistiche legate alla vita del Regno delle Due Sicilie, fu costantemente ammodernato con riusciti piani industriali, risultato a loro volta di una lungimirante e proficua politica economica dei re Borbone.

Castellammare di Stabia tendeva dunque ad eguagliare i cantieri d’oltreoceano in una competizione non dichiarata ma di fatto molto sentita a livello internazionale. Gli ultimi velieri tecnologicamente utili ai fini commerciali e militari, con fasciame in legno, furono costruiti intorno al 1850 in diversi arsenali sia europei sia americani. Orbene, pur essendo ormai tramontato il tempo dei velieri per dare giusto spazio ai “vapori”, la Marina Militare Duosiciliana impostò nel 1846, per vararlo nel 1850, il “Monarca” uno dei più prestigiosi velieri mai costruiti, armato con 20 obici e 50 cannoni. Si può discutere a lungo sulla scelta di costruire un anacronistico veliero, ma dobbiamo tenere anche presente che la marina militare Duosiciliana, già fornitissima di naviglio a vapore, non era seconda a nessuno nel Mediterraneo ed in competizione solo con la flotta inglese. Non è un caso infatti che su quest’arma si concentrarono i massimi sforzi delle potenze anglo.francesi e piemontesi per comprare, nel senso più vero del termine, i suoi alti ufficiali portandoli al tradimento e azzerando così la sua grande potenzialità che avrebbe certamente salvato il Regno dalla conquista. Quindi, fosse stato anche un capriccio di FerdinandoII, il veliero “Monarca” ben figurava nella flotta.

Ma l’ingegno Duosiciliano, sempre volto alla fruibilità futura delle cose, fece sì che il veliero fosse progettato già per la successiva integrazione con apparato motore a vapore e spinta ad elica, trasformazione che avvenne puntualmente circa dieci anni dopo. Di recente nei cantieri di Castellammare sono stati ritrovati i disegni e le sagome del veliero MONARCA che confrontato con quello successivo del “Vespucci” consente di ravvisarvi una certa familiarità nelle linee e nella struttura. Detto ciò, mi meraviglia che si insista ancora, per indicare aberranti forme di malgoverno, burocrazia e fiscalità lenta, farraginosa, vessatoria, aspetti negativi della giustizia e del vivere civile, su triti luoghi comuni che attribuiscono questi comportamenti al governo borbonico, perpetuano un’azione denigratoria che il sud non merita e non ha mai meritato.

Articolo ripubblicato per gentile concessione dell'autore, dott. Antonio Nicoletta


 

... guidati dai fari

I consigli per una navigazione sicura fino al Quarnero anche senza GPS


C’è un’isola di fronte a Trieste, anche se tende a passare inosservata. È l’isolotto dello Zucco, dove sorge la stupenda colonna/lanterna disegnata da Matteo Pertsch.


L’isolotto in realtà è poco più che uno scoglio semi-sommerso, su cui già i Romani avevano pensato di collocare un fanale per segnalare l’accesso al porto. In età moderna qualcuno vi aveva eretto una cappelletta dedicata a San Nicolò, poi, sotto Maria Teresa, un potente faro, e infine, nel 1833, l’attuale Lanterna. Era uno dei tre fari voluti dal Governo del Litorale per rendere più sicura la navigazione nei goffi di Venezia e di Trieste. Gli altri due, quello di Salvore e quello di Porer di fronte a Promontore, sono ancora in funzione. La Lanterna di Trieste invece, venuta meno la sua ragion d’essere, ha spento le luci nel 1969.

 

la Lanterna a Trieste
 


La nostra crociera inizia di notte, appena si placa la maretta sollevata dal Maestrale e una brezza fresca inizia a spirare dalle alture del Carso. Moya, il nostro cutter vecchio di un secolo è pesante e massiccio come un peschereccio: sarà un po’ più lento delle barche moderne, forse, ma la sua grande randa aurica lo spinge dritto come su delle rotaie a tre nodi fissi e in cabina neppure ce se ne accorge.

 

il cutetr Moya
 


A bordo vige il divieto dì accendere luci, buone solo ad accecare il tlinoniere facendogli perdere la visione notturna. Anche il GPS è spento: è troppo luminoso, poi la rotta non pone problemi e tanto c’è il faro di Salvore a guidarci. Tre lampi ogni 15 secondi: difficile, anche volendo, sbagliarsi.


Ogni faro ha un nome. Non solo il suo nome geografico, quello che conosciamo tutti, ma un suo nome in codice, una sequenza caratteristica di lampi che ci permette di riconoscerlo nella notte e di non confonderlo con nessun altro. Due lampi ogni dieci secondi: è il Faro della Vittoria a poppa, alto come una stella. 

 

 Un lampo più debole ogni quindici secondi al traverso: il fanale di Punta Gallo a Isola, e così via. Il faro di Salvore è la luce più intensa del circondano: ha una portata di 30 miglia, il che significa che, in una notte serena come questa, lo si perde di vista prima per effetto della curvatura terrestre che per l’affievolirsi della sua luminosità. Il profilo dell’Istria inizia a delinearsi sul fare dell’alba. Una striscia bluastra contro il rosa del cielo, poi altre, più alte e più chiare, in lontananza, come le quinte di un palcoscenico. Sorge il sole, e tutto scompare nella luce da oriente. Ci vorrà qualche ora prima di poter leggere l’andamento della costa nei suoi dettagli. Intanto scorrono a intervalli regolari i campanili delle chiese: San Pellegrino, San Pelagio, Sant’Eufrasia, San Martino, Santa Eufemia, guide delle anime ma anche dei naviganti che li riconoscono a distanza né più né meno che se fossero fari.


Le acque istriane sono violentate dai motoscafi che sfrecciano lungo la costa. Ma appena cala la notte il mare torna ai suoi legittimi proprietari. Moya corre in silenzio, senza sollevare onde e lasciando dietro di sé una scia luminosa. Al largo, improvvisamente uno sciabordio, sempre più forte. Non ne capiamo l’origine, finché una torpedine fosforescente punta contro di noi passando qualche centimetro sotto alla chiglia. Delfini. Decine, venuti a rimpinzarsi di sardelle nell’Alto Adriatico. E a giocare con Moya.

il faro di Porer
 

Le luci dei fari continuano a guidarci, appena una svanisce a poppa un’altra appare a prua, non siamo mai soli. San Giovanni in Pelago, Porer, Sansego. Non ho mai visto un mare così ben segnalato. Sfoglio un vecchio Elenco dei fari, e scopro che il più antico faro austriaco ancora in funzione è quello di Salvore, 1818, architetto Pietro Nobile. Penso allo lonio, dove ancora oggi ci sono, in tratti di mare frequentati, secche rocciose individuabili solo dalla presenza dei gabbiani e, a voite, da un barchino di pescatori. Ma lo lonio non è mai stato austriaco, e questo è uno dei motivi per cui non è possibile, neppure di notte, confonderlo con l’Adriatico.


I segnali dei fari a volte si ripetono e giocano strani scherzi. Una volta, durante una regata, restammo abbonacciati al tramonto presso Sansego. L’isola era la boa attorno a cui bisognava virare prima di puntare verso l’arrivo, a Venezia. Dal tramonto all’alba, l’intera notte per compiere quel periplo di poche miglia. il timoniere di turno con gli occhi fissi su quella luce intermittente sospesa a cento metri sul mare. Due lampi ogni dieci secondi. La durata dei lampi è leggermente diversa, ma il periodo è lo stesso di quello del Faro della Vittoria; chissè quante altre cose in comune hanno, Sansego e Trieste?

Piero Tassinari
(per gentile concessione dell'autore e del quotidiano Il Piccolo di Trieste, dove l'articolo è stato pubblicato il 19 agosto 2007)

 


"Non chi comincia ma quel che persevera"

L'Amerigo Vespucci, la regina delle navi-scuola, viene impostata il 12 maggio 1930 nel Regio Cantiere Navale di Castellamare di Stabia, viene varata il 22 febbraio 1931 ed entra in servizio a luglio dello stesso anno.




La nave e le sue caratteristiche
 

la Amerigo Vespucci
la Amerigo Vespucci

 

L'Amerigo Vespucci, l'unità più anziana in servizio nella Marina Militare (non è lontana dal compiere gli 80 anni di vita) interamente costruita e allestita presso il Regio Cantiere Navale di Castellamare di Stabia, è stata varata il 22 febbraio 1931; madrina del varo è stata la signora Elena Cerio. Consegnata alla Regia Marina il 26 maggio 1931, entrò in servizio come Nave Scuola il successivo 6 giugno, aggiungendosi alla gemella Cristoforo Colombo (in realtà leggermente più piccola), di tre anni più anziana, e costituendo con essa la "Divisione Navi Scuola" al comando dell'Ammiraglio Cavagnari. Al rientro dalla prima Campagna di Istruzione, il 15 ottobre 1931 ricevette a Genova la Bandiera di Combattimento, offerta dal locale Gruppo UNUCI (Unione Nazionale Ufficiali in Congedo d'Italia).


Il motto della Nave è "Non chi comincia ma quel che persevera", assegnato nel 1978; originariamente il motto era "Per la Patria e per il Re", già appartenuto al precedente Amerigo Vespucci, sostituito una prima volta, dopo il secondo conflitto mondiale, con "Saldi nella furia dei venti e degli eventi", infine con quello attuale.


Dal punto di vista tecnico-costruttivo l'Amerigo Vespucci è una Nave a Vela con motore; dal punto di vista dell'attrezzatura velica è "armata a Nave", quindi con tre alberi verticali, trinchetto, maestra e mezzana, tutti dotati di pennoni e vele quadre, più il bompresso sporgente a prora, a tutti gli effetti un quarto albero. L'Unità è inoltre fornita di vele di taglio: i fiocchi, a prora, fra il bompresso e il trinchetto, gli stralli, fra trinchetto e maestra e fra maestra e mezzana, e la randa, dotata di boma e picco, sulla mezzana.

Lo scafo

Lo scafo è del tipo a tre ponti principali, continui da prora a poppa (di coperta, di batteria e di corridoio), più vari ponti parziali (copertini); possiede due sovrastrutture principali, il castello a prora e il cassero a poppa, che si elevano sul ponte di coperta ma che idealmente ne sono la continuazione. Il caratteristico colore bianco e nero sottolinea il richiamo al passato: le fasce bianche in corrispondenza dei ponti di batteria e corridoio ricordano infatti le due linee di cannoni del vascello ottocentesco alla cui tipologia il progettista si era ispirato.

A prora della nave si trova la polena, che rappresenta Amerigo Vespucci, realizzata in bronzo dorato. Caratteristica della nave sono i fregi di prora e l'arabesco di poppa, in legno ricoperti di foglia d'oro zecchino.
Il fasciame è composto da lamiere di acciaio di vario spessore (da 12 a 16 mm.), collegate mediante chiodatura alle costole, che costituiscono assieme alla chiglia e ai bagli l'ossatura della nave. Tale sistema garantisce la necessaria flessibilità al trave nave; l'impermeabilità del tutto è assicurata dallo stretto contatto fra metallo e metallo, fortemente compressi dalla fitta chiodatura, che deve essere quindi realizzata a regola d'arte.

Tutti gli alberi, compreso il bompresso, sono costituiti da tre tronchi, di cui i primi due in acciaio (anch'essi realizzati mediante lamiere chiodate), il terzo, denominato alberetto per gli alberi verticali, asta di controfiocco per il bompresso, è in legno (douglas). I pennoni seguono la medesima filosofia costruttiva: i tre inferiori sono in acciaio, i due superiori in legno. Per quanto attiene la randa, il boma è in acciaio mentre il picco è in legno.

Molte altre parti della nave sono in legno, diversificato a seconda delle caratteristiche richieste: teak per il ponte di coperta, la battagliola e la timoneria, mogano, teak e legno santo per le attrezzature marinaresche (pazienze, caviglie e bozzelli), frassino per i carabottini, rovere per gli arredi del Quadrato Ufficiali e per gli alloggi Ufficiali, mogano e noce per la Sala Consiglio.
La lunghezza della Nave al galleggiamento è di 70 metri, ma tra la poppa estrema e l'estremità del bompresso si raggiungono i 101 metri.

La larghezza massima dello scafo è di 15,56 metri, che arrivano a 21 metri considerando l'ingombro delle imbarcazioni, che sporgono dalla murata, e a 28 metri considerando le estremità del pennone più lungo, il trevo di maestra. L'immersione massima è pari a 7,30 metri.

L'unità è dotata di ben 11 imbarcazioni: due motoscafi, di cui uno riservato al Comandante, due motobarche, due motolance, quattro palischermi a vela a e remi, utilizzate per l'addestramento degli Allievi, e la baleniera, anch'essa a remi e a vela, tradizionalmente riservata al Comandante. Il dislocamento a pieno carico è pari a 4100 tonnellate. 

L'apparato motore ed ausiliari

La propulsione è di tipo diesel-elettrico: la nave è dotata di due motori diesel collegati a due dinamo generatrici di corrente elettrica che alimentano il motore elettrico di propulsione. I due motori diesel sono FIAT a 8 cilindri in linea, a iniezione diretta, sovralimentati con turbosoffiante, che sviluppano una potenza massima totale di 3000 cavalli. Il motore elettrico di propulsione (MEP) è un Marelli a corrente continua, a doppio indotto, in grado di sviluppare un regime rotatorio massimo di 150 giri/min., che corrisponde ad una velocità di circa 12 nodi. L'elica è unica ed ha quattro pale.

L'energia elettrica per il funzionamento degli apparati di bordo è fornita da 4 diesel alternatori a 8 cilindri Isotta Fraschini/Ansaldo da 500 KVA ciascuno. L'unità è dotata di due argani a prora per la manovra delle catene delle ancore, di cui uno dotato di campana sul castello, utilizzabile quindi anche per la manovra di cavi. A centro nave esiste inoltre un albero di carico azionato da due verricelli elettrici, utilizzato per la messa a mare ed il recupero delle imbarcazioni maggiori. A poppa, per la manovra dei cavi e per la messa a mare e il recupero dei palischermi, vi sono due argani manovrati a mano a mezzo di apposite aste in legno dette "aspe". Il governo della nave èossibile da tre stazioni; la prima sul cassero, all'interno della timoneria, normalmente utilizzata per le andature a vela, con manovra elettrica (comando idraulico) o a braccia (timone di emergenza a mano), una seconda in plancia a prora, esclusivamente con manovra elettrica (comando idraulico), ed infine una terza in locale agghiaccio timone, con manovra elettrica e comando meccanico.

 L'alberatura e vele

Gli alberi, precedentemente descritti, sono mantenuti in posizione grazie a cavi di acciaio (manovre fisse o dormienti) che li sostengono verso prora (stralli) verso i lati (sartie) e verso poppa (paterazzi). Sugli stralli sono inferiti inoltre i fiocchi e le vele di strallo. L'altezza degli alberi sul livello del mare è di 50 metri per il trinchetto, 54 metri per la maestra e 43 metri per la mezzana; il bompresso sporge per 18 metri.

I tre alberi verticali portano ciascuno cinque pennoni, dal caratteristico nome, comune anche alla vela relativa: sul trinchetto si trovano, dal basso, trevo di trinchetto, parrocchetto fisso, parrocchetto volante, velaccino e controvelaccino; sulla maestra trevo di maestra, gabbia fissa, gabbia volante, velaccio e controvelaccio; sulla mezzana trevo di mezzana, contromezzana fissa, contromezzana volante, belvedere e controbelvedere. Il trevo di mezzana è normalmente tenuto sguarnito dalla vela (che toglierebbe il vento al trevo di maestra) e prende quindi il nome di "verga secca". In ciascun albero i due pennoni inferiori sono fissi (possono solo ruotare sul piano orizzontale), mentre i tre superiori possono scorrere sull'albero e vengono alzati al momento di spiegare le vele.

Per quanto attiene le vele di taglio, l'armamento prevede cinque vele a prora (augelletto, controfiocco, fiocco, gran fiocco e trinchettina), quattro vele di strallo (di gabbia, di velaccio, di mezzana, di belvedere) e la randa. A questo "set" di vele, sempre "pronto all'uso" possono essere aggiunti, se del caso, gli scopamare, due vele quadre inferite ai lati del trevo di trinchetto, utilizzando idonee prolunghe del pennone.

Con la Nave completamente invelata si possono raggiungere velocità ragguardevoli, almeno in relazione al peso della stessa: il "record" è di 14,6 nodi.
La superficie velica totale (24 vele) è pari a circa 2635 metri quadri. Le vele sono di tela olona (tessuto di canapa) di spessore compreso tra i 2 e i 4 millimetri e sono realizzate unendo mediante cucitura più strisce (ferzi).


La manovra delle vele si attua per mezzo di cavi (manovre correnti o volanti) di diverso diametro, per un totale di circa 20.000 metri.


Anch'essi hanno nomi caratteristici, quali drizze (per alzare i pennoni mobili e le vele di taglio), bracci (per orientare i pennoni), scotte e mure (per fissare gli angoli bassi delle vele quadre, rispettivamente sottovento e sopravvento), imbrogli (per raccogliere le vele sui pennoni), ecc.. Le manovre correnti sono per la maggior parte in manilla (fibra vegetale); fanno eccezione le scotte dei trevi, che per sostenere l'elevato sforzo sono realizzate in nylon. Oltre a ciò l'attrezzatura velica comprende circa 400 bozzelli in legno e 120 in ferro.

 Equipaggio

Vero "motore" dell'Amerigo Vespucci è il suo equipaggio, composto da 278 membri, di cui 16 Ufficiali, 72 Sottufficiali e 190 Sottocapi e Comuni, suddiviso nei Servizi Operazioni, Marinaresco, Dettaglio, Armi, Genio Navale/Elettrico, Amministrativo/Logistico e Sanitario. Durante la Campagna di Istruzione l'equipaggio viene a tutti gli effetti integrato dagli Allievi e dal personale di supporto dell'Accademia Navale, raggiungendo quindi circa 480 unità.

Ogni Servizio ha il suo compito peculiare a bordo: il Servizio Operazioni si occupa della navigazione, utilizzando la strumentazione di cui la nave è fornita (radar, ecoscandaglio, GPS), della meteorologia e delle telecomunicazioni; il Servizio Marinaresco è preposto all'impiego delle vele, alla gestione delle imbarcazioni e all'esecuzione delle manovre di ormeggio e disormeggio; il Servizio Dettaglio comprende il personale che gestisce le mense di bordo; il Servizio Armi ha in consegna le armi portatili e provvede all'addestramento dell'equipaggio al loro impiego; il Servizio Genio Navale/Elettrico assicura la conduzione dell'apparato motore e degli apparati ausiliari, la produzione di energia elettrica ed il mantenimento dell'integrità dello scafo; il Servizio Amministrativo/Logistico si occupa della acquisizione, contabilizzazione e distribuzione dei materiali, della stesura degli atti amministrativi e della gestione delle cucine; il Servizio Sanitario, infine, si occupa delle attività di prevenzione e cura del personale.

Vale la pena sottolineare che la messa in vela completa dell'unità, agendo contemporaneamente sui tre alberi ("posto di manovra generale alla vela"), è possibile solo con gli Allievi imbarcati, che tradizionalmente vengono destinati sulla maestra e sulla mezzana, mentre il personale del Servizio Marinaresco, i nocchieri, si occupa del trinchetto oltre che del coordinamento e controllo delle attività sugli altri due alberi. In assenza degli Allievi, la manovra è assolvibile impiegando tutto il personale nocchiere sugli alberi ("a riva") e destinando alle manovre dei cavi il personale degli altri Servizi libero da altre incombenze.

 L'attività della nave

Dalla sua entrata in servizio la Nave ha svolto ogni anno attività addestrativa (ad eccezione del 1940, a causa degli eventi bellici, e degli anni 1964, 1973 e 1997, per lavori), principalmente a favore degli allievi dell'Accademia Navale, ma anche degli allievi del Collegio Navale, ora Scuola Navale, "Morosini", degli allievi nocchieri, nonché di giovani facenti parte di associazioni veliche, quali la Lega Navale Italiana e la Sail Training Association Italia.
Oltre a numerose brevi campagne in Mediterraneo, effettuate per lo più nel periodo primaverile e autunnale, da quella del 1931 a quella del 2005 l'Amerigo Vespucci ha effettuato ben 72 Campagne di Istruzione a favore degli Allievi della 1ª Classe dell'Accademia Navale, di cui 38 in Nord Europa, 20 in Mediterraneo, 4 in Atlantico Orientale, 7 in Nord America, 1 in Sud America e 2 nell'ambito dell’unica circumnavigazione del globo, compiuta tra il maggio 2002 ed il settembre 2003, periodo nel quale la Nave è stata coinvolta nelle attività connesse con l’edizione dell’America’s Cup in Nuova Zelanda.
Le Campagne di Istruzione, svolte nel periodo estivo, hanno una durata media di tre mesi e toccano per lo più porti esteri; durante tali Campagne, quindi, l'attività della Nave, eminentemente formativa-addestrativa, si arricchisce dell'aspetto di presenza e rappresentanza, contribuendo ad affermare l'immagine nazionale e della Marina Militare all'estero.
Per quanto attiene l'aspetto formativo-addestrativo, agli Allievi imbarcati, chiunque siano, vengono impartite le norme basilari del vivere per mare, come pure le competenze più specifiche nei vari settori: marinaresco, condotta dell'Unità (compreso l'utilizzo del sestante per effettuare il punto nave), condotta dell'apparato motore ed ausiliari, gestione delle problematiche di tipo logistico, amministrativo e sanitario. A tale scopo, oltre all'attività pratica, vengono organizzate conferenze e lezioni tenute dai membri dell'equipaggio più esperti; il livello di apprendimento viene poi accertato alla fine della Campagna a mezzo di verifiche scritte e orali.

 

Fonte: Marina Militare

 


 

... i fari da vedere.

Da Punte Bianche a Porto Taier: l’arcipelago si trasforma in un parco dei divertimenti

Fanali e fari si susseguono lungo la costa dalmata. I primi sono semplici lanterne; i secondi sono sistemati su torri, tralicci o altre costruzioni cospicue che servono da riferimento anche da giorno.



Così li definisce l’Istituto Idrografico e a duemila anni di distanza sembra di rileggere i Commentarîdi Giulio Cesare: pharus est turris magna altitudine, mirificis operibus extructa.

Il nostro viaggio iniziò di primo mattino, ai confini dell’Adriatico, quando l’equipaggio di Moya emergeva dalle cuccette attirato dall’odore del caffè. Eravamo in regata, e avevamo appena issato la controranda, ammainata per precauzione durante la notte. Erano state ore insonni ed esaltanti, spinti dalla Tramontana a punte di dieci nodi lungo il Canale d’Otranto, e il cervello iniziava a elaborare per conto proprio immagini e nessi. In lontananza ci è apparso il profilo squadrato di Fano, la prima isola greca. Apparso, è la parola giusta: perché in queste nome Fano c’è tutto il senso greco dell’apparire, del risplendere, della luce, e anche della fiaccola impeciata - il primo faro - accesa per trovare la via nell’oscurità. Isidoro di Siviglia... Eppure Fano1) è il nome italiano dell’isola: in greco si chiama Othoni. Othoni2): come, nel greco classico, la tela, il lino, la tela di lino delle vele... Non una vela intorno, non una nave. Nulla che ci potesse suggerire l’anno, o il secolo, in cui ci trovavamo.

 il faro di Pelagosa

 In Adriatico è più difficile essere soli, impossibile poi sotto costa. La tentazione tuttavia è forte e, anche se più che un parco naturale sembra un parco dei divertimenti, passare all’interno delle isole Incoronate è sempre affascinante. I fari di Punte Bianche e di Porto Taier che segnalano l’accesso sono tra i più imponenti e i più belli della Dalmazia. I turisti in cerca di solitudine oggi li possono affittare, ma la vita dei custodì era dura e le cronache registrano casi in cui l’isolamento poteva rendere fatale anche una semplice scarlattina. Per le navi a vela erano passaggi pericolosi, ed è straordinario pensare come bastimenti di ridotta manovrabilità affrontassero passaggi così angusti. Ce ne dà un’idea il vecchio portolano del 1812 che ci ha fatto da guida in anni di crociere: “al di dentro saranno principalmente da temersi i venti boreali poiché percuotendo i fianchi delle navi, e così attraversandone il corso, le pongono in cimento continuo di dare in qualche secca o in qualche scoglio, e dove non fossero né scogli né secche, di ferire alle vicine spiagge delle isole”.


Capo Planca divide la Dalmazia. L’asse delle isole prende un’altra direzione, e la navigazione torna a svolgersi in mare aperto. E’ sempre stata questa la rotta naturale per i velieri che scendono l’Adriatico. Lissa, Pelagosa, il Gargano: punti naturali di riconoscimento sia che si approdi in Italia sia che si prosegua per la Grecia, nel qual caso cercheremo, di nuovo sulla costa orientale, l’sola di Saseno, poi le “Strade Bianche” scavate nella costa albanese, e infine Fano, Merlera e la vetta del San Salvatore. Ma adesso siamo ancora in Dalmazia e la nostra guida è il faro di Punta Promontore su Lissa, inaugurato nel 1865, un anno prima della fatale battaglia. Un lampo ogni 15 secondi, 30 miglia dì portata: uno lei fari più potenti dell’Adriatico. Più potente anche di quello di Pelagosa.

 

il faro di Lissa
 

Passiamo al traverso di quest’ultimo al tramonto. Il Maestrale teso non accenna a diminuire con il calare del sole, rotta Ostro quarta Scirocco. I gabbiani ci superano traversando con nonchalance l’Adriatico da una costa all’altra. Il profilo aguzzo della Pelagosa sembra un castello incantato contro il cielo infuocalo - capiamo perché, senza alcun fondamento geologico l’abate Fortis la ritenesse il prodotto di un’antica eruzione vulcanica, come Santorini. Una luce si accende sulla sommità ovest dell’isola: un lampo ogni 17 secondi e mezzo. Il faro, del 1875, è spettacolare. A quasi trenta miglia dalla costa pugliese e a più di sessanta da quella dalmata, è il più ‘pelagico’ dell’Adriatico, e la sua costruzione basterebbe da sola a testimoniare la dedizione dell’Austria per questo mare. La sua edificazione richiese poco più di un anno, con cento operai diretti da Antonio Toplich “a contractor - nelle parole del console inglese a Trieste Richard Burton - whose name is associated only with hard and honest work”.

il faro di Punte Bianche
 

Poche decine di miglia ci separano dalla Puglia ma, che ci si diriga su Vieste, su Bari o su Brindisi, è un altro mondo, I traghetti Anek e Minoan percorrono l’Adriatico in venti ore, ma non è la stessa cosa che farlo sotto vela. Non è la stessa cosa neppure con le moderne imbarcazioni dotate di motore e strumenti satellitari, tutte cose che con l’arte umanissima della navigazione nulla hanno da spartire. Forse la differenza è il passo della nave sotto vela, forse l’emozione del riconoscimento della costa, forse la serenità di seguire il corso della natura. Forse provavano questa sensazione a bordo del brigantino “Italo”, in procinto di imboccare l’Arcipelago venerdì 7 giugno 1844. “L’aria è serena. Si naviga con tutte le vele e tutti i velacchi volanti da una parte e dall’altra. Si dirige la prora al Greco quarta Levante e avendo girato il vento si ammainano i volacchi volanti dalla parte destra. Il vento è sempre fresco e favorevole, abbiamo in vista l’isola Candia”. Il giorno successivo “va rinforzando il vento, l’aria si sottilizza, l’orizzonte principia caricarsi di grosse e dense nubi che minacciano vento più forte. Si naviga costeggiando l’isola di Delos col lasciarla alla nostra destra”. Scorrono le isole al traverso, scorre la vita.

  

Piero Tassinari
(per gentile concessione dell'autore e del quotidiano Il Piccolo di Trieste, dove l'articolo è stato pubblicato il 4 novembre 2007)
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1) φαίνω [fàino, feno] = apparire, portare alla luce, da φώς, φωτός [fos, fotòs] = luce - cfr. it. fenomeno (apparso, reso manifesto),fotografia (scrittura con la luce) (n.d.r.)


L’isola di Othoni si trova a 11,5 miglia a nord ovest di Corfù (n.d.r.)

2) οθόνιον [othònion] poi οθόνη [othone] = tela, tela sottile, vela (n.d.r.)

 


Ernest Henry Shackleton: 1874 - 1922

La terza spedizione in Antartico dell'esploratore anglo-irlandese Ernest Shackleton è una delle avventure più incredibili mai effettuate.


Nel 1915, dopo che la sua nave Endurance rimase intrappolata nei ghiacci del pack, Shackleton e il suo equipaggio raggiunsero un aspro scoglio disabitato chiamato Elephant Island a bordo di tre imbarcazioni non cabinate.

shackleton
Royal Geographical Society Photo

Da qui, Shackleton e cinque uomini partirono in una piccola scialuppa di salvataggio, con una zavorra costituita da massi e attraversarono 1300 km di oceano spazzato dalle bufere fino all'isola della Georgia del Sud, dove si trovava una stazione di balenieri.

Dopo l'approdo sul lato 'sbagliato' dell'isola, Shackleton e due compagni attraversarono 42 km di montagne e ghiacciai in pieno inverno (la Traversata di Shackleton), giungendo alla stazione dopo 36 ore di cammino.

Con l'aiuto del personale della stazione, gli altri tre uomini furono recuperati; in seguito, furono salvati gli uomini rimasti su Elephant Island. Non perì nemmeno uno dei componenti della spedizione.

Shackleton morì d'infarto nel tentativo di circumnavigare il continente antartico. La sua tomba si trova sull'isola.

 

[articolo tratto dalla rivista Harken Bearings 2008 per gentile concessione di Harken Yacht Equipments]

Approfondimenti: scopri Ernest Shackleton su Wikipedia

 


 

Perasto si trova nel bacino più interno delle Bocche di Cattaro, su un capo che divide la baia di Risano da quella di Cattaro, e di fronte allo Stretto delle Catene (Tjesnac Verige) che dà sulla baia di Teodo.


ImageNel corso del medioevo Perasto entrò nell'orbita dalla Repubblica di Venezia, cui appartenne a periodi intermittenti e poi ininterrottamente dal 1420 al 1797. Nel Settecento la cittadina visse il suo momento di maggior splendore, giungendo ad avere quattro cantieri navali, una flotta di circa cento navi ed una popolazione di 1.700 abitanti. All'epoca veneziana risalgono anche le nove torri difensive (Perasto, pur non cinta da mura, non fu mai presa dai Turchi), la fortezza di Santa Croce (1570), i sedici palazzi barocchi e le diciannove chiese (diciassette cattoliche e due ortodosse).

Grazie allo spontaneo aiuto dato nel 1368 alla flotta veneta durante un terribile assedio, la città si guadagnò il titolo di "fedelissima gonfaloniera", che mantenne fino alla fine della Repubblica. Per decreto speciale del Senato la città ebbe l'onore e privilegio di custodire il gonfalone di guerra della flotta veneta; anche i dodici Gonfalonieri di Perasto, che in corso di battaglia costituivano la guardia personale del doge ed avevano il compito di difendere il vessillo sulla nave ammiraglia, provenivano esclusivamente da Perasto. Nella battaglia di Lepanto, ne perirono otto su dodici. Sotto il governo veneto, Perasto fu sottoposta all'autorità civile e giudiziaria del Rettore e provveditore di Cattaro, ma ebbe un proprio consiglio e propri ordinamenti autonomi.

La devozione della cittadina alla Repubblica di Venezia non venne meno neppure alla caduta di quest'ultima: mentre il 12 maggio 1797 il doge depose le insegne di San Marco, i perastini deliberarono di rimanere veneziani e si ressero in autogoverno fino all'arrivo delle truppe austriache. I vessilli veneti rimasero così issati fino al 23 agosto, giorno in cui vennero seppelliti con una cerimonia solenne, l'ultima della Serenissima, sotto l'altare del duomo.

Il capitano della guardia, conte Giuseppe Viscovich, è costretto a cedere. Nell'ammainare la bandiera della Serenissima, pronunciò un celebre discorso rimasto come una sorta di testamento per le future generazioni rappresentate dal giovane nipote Annibale.

Questo discorso è passato alla storia col titolo di

 

Ti co nu, nu co ti

(versione originale in veneziano del '700: la lettera x si pronuncia come una z dolce)


In sto amaro momento, in sto ultimo sfogo de amor, de fede al Veneto Serenisimo Dominio, al Gonfalon de la Serenisima Republica, ne sia el conforto, o citadini, che la nostra condota pasada, e de sti ultimi tenpi, rende non solo più giusto sto ato fatal, ma virtuoxo, ma doveroxo par nu.

Savarà da nu i nostri fioi, e la storia de el zorno farà saver a tuta l'Europa, che Perasto la gà degnamente sostenudo fin a l'ultimo l'onor de el Veneto Gonfalon, onorandolo co sto ato solene, e deponendolo bagnà de 'l nostro universal amaro pianto. Sfoghemose, citadini, sfoghemose pur, e co sti nostri ultimi sentimenti sigilemo la nostra cariera corsa soto al Serenisimo Veneto Governo, rivolgemose a sta Insegna che lo rapresenta, e su de ela sfoghemo el nostro dolor.

Par trexentosetantasete ani le nostre sostanse , el nostro sangue , le nostre vite le xè sempre stàe par Ti, S.Marco ; e fedelisimi senpre se gavemo reputà, Ti co nu, nu co Ti, e senpre co Ti sul mar semo stài lustri e virtuoxi. Nisun co ti ne gà visto scanpar, nisun co Ti ne gà visto vinti e spauroxi !

E se i tenpi presenti , tanto infelisi par inprevidensa, par disension, par arbitrii ilegali, par vizi ofendenti la natura e el gius de le xenti, non Te gavese cavà via , par Ti in perpetuo sarave stàe le nostre sostanse, el nostro sangue, la vita nostra.

E piutosto che védarTe vinto e desonorà da i tói , el coragio nostro, la nostra fede se averave sepelìo soto de Ti. Ma xa che altro no ne resta da far par Ti, el nostro cor sia l'onoradisima tó tonba, e el più duro e el più grando elogio le nostre làgreme.

 INXENOCITE ANCA TI, ANIBALE, E TIENTELA A MENTE PER TUTA LA VITA


Conte Giuseppe Viscovich
Capitano di Perasto